Fuga da Lukla - Viaggio al Campo Base dell’Everest (parte1)
di Matteo Bergamo
"E sulla bianca schiena dell'animale egli scaricò la somma della rabbia e l'odio provati
dalla propria razza; se il suo petto fosse stato un cannone, egli, gli avrebbe sparato
contro il suo cuore."
Moby Dick, Herman Melville
Ci sono alcune montagne che suonano alle mie orecchie come la grande
ossessione del Capitano Achab. Stagione dopo stagione ci reclamano come
sirene maliarde, rocce tramutate in libri di storia e cimiteri viventi
dell'alpinismo. Questa è la loro fascinazione: un costante richiamo alla sfida,
ad affrontare i molti mostri che abitano dentro di noi e gli altrettanti pericoli
fuori. Al trekking del campo base dell'Everest, bisognerebbe amputare la
parola trekking perché è prima di tutto un viaggio. Un viaggio che inizia con il
ronzio dell'elica di un aereo. È già un buon risultato sbarcare a Lukla, in
assoluto uno degli aeroporti più insidiosi, incassato tra le montagne come un
chicco di mais dentro una pannocchia.
Katmandu-Lukla sola andata
venerdì 11 marzo 2011 ore 5.00 aeroporto di Katmandu
L'aeroporto domestico di Kathmandu è un mare agitato: grandi cartoni tenuti
insieme da fili del bucato, ondate di disordine e turisti alla deriva. Fuori è
ancora buio, le luci dei neon complicano ancor di più la mia comprensione di
quel mondo brulicante. Tè a colazione, poi saliamo finalmente sull'aereo: è
un insetto pigro, dal muso lungo e una porticina sulla parte posteriore della
carlinga. Ci accoglie una hostess e una quindicina di posti appiccicati tra loro,
quasi tutti occupati. La libellula ronza un po', poi si alza in volo. La faccina di
Chiara è tesa non ha molta fiducia negli aerei che portano il nome Yeti,
Buddha, Tara. Anch'io sono inquieto, sussulto al grido degli altri trekkers che,
alla vista delle prime montagne imbiancate, schiacciano le macchine
fotografiche contro i finestrini. Dalla mia parte vedo solo terra brulla, che
scemo che sono! Dovevo sedermi dall'altro lato. Dopo cinquanta minuti di
volo, attraverso i finestrini dei piloti le montagne sembrano farsi sempre più
vicine. Improvvisamente tutti tacciono, quindici impulsi cardiaci si fanno ora
più veloci in quello spazio angusto, l'atterraggio è la discriminante di un
viaggio da ricordare oppure no. Quando tocchiamo terra l'aereo singhiozza
poi frena bruscamente nel tentativo di arrestare la sua corsa nei
quattrocentocinquanta metri scarsi di pista in salita. Le chiappe sono strette,
ogni pensiero revocato. La libellula finisce la sua corsa con un scarto verso
destra. Ci sarebbe da baciare il suolo, ma simulo una perfetta padronanza dei
miei sentimenti mentre scendo a terra. Veniamo dirottati nel casotto dei
bagagli. Attraverso la rete che delimita l'aeroporto vedo numerosi portatori in
attesa. Che aspettano? Noi? Sì, aspettano le vacche d'oro, pronte per essere
accompagnate e munte. Nelle loro facce buie è scritta color della terra la
povertà, l'espediente, la rassegnazione, che insieme condensano in un
inglese mal masticato e rivolto a noi: "Porter, Sir?", "Everest Base Camp, Sir?"
Om mani padme hum
venerdì 11 marzo 2011 Lukla (2.800 m) - Namche (3.440m)
Namche è la nostra prima destinazione, di solito si affronta in due tappe
dormendo a Padking, ma la spedizione italo-parmigiana (io e mia moglie) ha
la coperta corta. Quando penso ai nostri viaggi mi chiedo se è sano
rincorrere in questo modo il tempo. Dobbiamo chiudere il giro in appena
sette, otto giorni, ma sappiamo bene che ad alta quota la fretta è amica solo
dei guai. Il mal di montagna è un preoccupante punto interrogativo nelle
nostre coscienze. Procediamo attraverso un portale decorato che preannuncia
l'inizio di una memorabile sgambettata. Seguiamo un sentiero dolce, in lieve
discesa, attraversando decorosi, piccoli villaggi. La vegetazione è rigogliosa,
grandi boschi di rododendro e conifere si alternano a coltivazioni e terre da
pascolo. Viaggiamo attraverso le numerose tracce della religiosità di questo
popolo: le ruote di preghiera, i cavalli del vento, le pietre mani. Guardo i
nostri due portatori, chi sono? È un fattore istintivo per me conoscere chi mi
cammina a fianco giorno dopo giorno. È una questione di appartenenza alla
stessa specie, quella che fatica e suda insieme, che condivide il sole, la
pioggia, il vento e la sete. Faccio una fatica tremenda ad accettare che
trasportino la parte più pesante del mio zaino anche se sono meglio
acclimatati e sembra che i loro 10/15 kg siano molto più leggeri dei nostri 5.
Rajan è quello dei due che meglio parla inglese, socievole, robusto, con
capelli lunghi e scuri. Ha iniziato come sherpa, poi come cuoco, la famiglia gli
ha combinato un matrimonio che è finito quando lei, trovandosi ogni santa
notte da sola, si è innamorata di un altro uomo. Ogni volta che ci vede
sorride, ma il suo sorriso più sincero è quando si tocca la pancia dopo aver
mangiato. L'altro sherpa è Dawa. Smilzo, taciturno, anche lui perennemente
affamato. È stato sposato ed ha consumato tutti i suoi soldi per curare
inutilmente la moglie colpita da un male spietato. Ora si è risposato ed ha tre
bocche da sfamare. Quando lo guardo sono io che sorrido: sembra un
bambino imprigionato nell'aspetto di un uomo saggio. Tanti sherpa sono
come lui: ragazzi già vecchi. Cammina sempre dalla parte giusta delle pietre
mani, ogni tanto lo sento sussurrare al vento una preghiera. Om mani padme
hum. Dawa vuole che passiamo dove passa lui, anche se questo costringe a
scegliere il percorso più tortuoso. Arriviamo a Jorsale dove il Governo ha
edificato l'entrata del parco, mentre controllano i nostri documenti leggo sul
tabellone che più di millecinquecento trekkers sono passati di qui tra gennaio
e febbraio. Riprendendo la marcia, attraversiamo magici ponti tibetani
ondeggianti nell'aria e ornati da migliaia di cavalli del vento. Davanti a noi si
staglia nel cielo il Tamserku, un'imponente montagna che supera il seimila
metri. La salita è ancora lunga e abbastanza dura per tutti, anche per un
gruppo di koreani, fermi ad aspettare un loro compagno che beatamente
vomita per la quota. Non siamo neanche a 3.500 dico io e già fa questo
effetto? Mi volto all'improvviso e siamo già a Namche, capitale del popolo
Sherpa.
Un tranquillo giorno di mercato
sabato 12 marzo 2011 Namche (3.440m) giornata di acclimatamento
Forse abbiamo esagerato ieri, siamo saliti più del dovuto. Chiara è chiusa nel
sacco a pelo e borbotta qualcosa che non entra nella mia testa. La camera è
gelata, forse dice che sta male, le chiedo cosa sente e mi risponde che
dentro la pancia ha un frullatore. Si alza e vomita. Merda! Almeno oggi è
l'unico giorno di acclimatamento di tutto il viaggio, per cui staremo a vedere.
L'accordo è che se uno dei due sta male ci si ferma, e se non ci sono
miglioramenti si scende. Inghiottiamo entrambi una pillola di diamox e
decidiamo di prenderlo fino al campo base (se mai ci arriveremo). Chiara si
rimette a letto, poi si alza e vomita anche il diamox, merda! "Stai a letto,
copriti, torno tra un po'." Mi ritrovo fuori dal lodge nel mezzo di una
confusione inaspettata. È giorno di mercato. Ora ricordo, avevo letto da
qualche parte che sabato a Namche è l'apocalisse. Vestiti colorati, verdura,
galline, cianfrusaglie, yak, il mercato è un collettore di tante cose che
difficilmente acquisterei. Mi fermo davanti ad una baracca insieme ad un
cane che scodinzola. Entro, è la macelleria. La carne è ammassata sul
bancone, c'è poca igiene nell'ambiente, mi chiedo cosa penserebbe questa
gente del nostro mondo asettico. Decido allora di salire oltre il paese, c'è un
sentiero ripido che porta ad una pista di atterraggio in terra battuta vicina
all'Hotel Everest View. La pista ora è poco utilizzata visto che molti soffrono
la quota arrivando qui direttamente da Kathmandu. Dall'alto Namche è
estremamente suggestiva, un anfiteatro di case con il tetto azzurro
contornate da colossi innevati, tra cui fa già capolino l'Everest e la sua
inconfondibile piramide sommitale nera. Torno in hotel eccitato da quella
visione e noto che Chiara sta un po' meglio. Decidiamo di fare un giro al
museo del Parco Nazionale del Sagharmata. Poi shopping e vedo che questa
è la miglior medicina per Chiara che ora ha recuperato. Dentro di me sono
felice come uno yak davanti a un prato verde.
La ballata del vecchio marinario
domenica 13 marzo 2011 Namche (3.440) - Pangboche (3.930)
I rigori di marzo riescono a penetrare anche la nostra stanza, al mattino
troviamo le bottiglie d'acqua ghiacciate. Non vediamo l'ora di uscire dal
lodge, per respirare l'aria scaldata dal sole. Oggi ci aspetta un lungo tratto.
All'orizzonte, oltre il sentiero, spunta l'Ama Dablan, una creatura di roccia e
ghiaccio che pare scolpita e avvitata là. Incontriamo subito alcuni operai
nepalesi intenti a sistemare il sentiero, con loro c'è un vecchio, seduto ad un
banchetto. Occhiali da sole e giacca a vento, ha il volto stanco, provato dagli
anni, chiede un'offerta per l'opera di manutenzione. Anche noi apriamo il
portafoglio senza pensarci e firmiamo un libro. Mi accorgo che Rajan lo tratta
con un'attenzione insolita, gli parla piano, non lo fissa negli occhi. Poco più
avanti camminando il nostro portatore mi racconta come conobbe quell'uomo
durante un trekking alcuni anni prima. Mi torna alla mente la ballata del
vecchio marinaio di Coleridge, dove un vecchio ferma un giovane per
raccontargli una storia terribile. Fece così anche quell'uomo: forse per espiare
la sua colpa o perché da sempre è più facile confessare che perdonarsi. Un
giorno egli si recò ad un matrimonio. Là si ubriacò senza ritegno. Tornando a
casa, preso da chissà quale delirio uccise la moglie e il figlio ancora piccolo.
Trascorse buona parte della sua vita in galera. Divenuto ormai un vecchio
inoffensivo fu scarcerato e impiegato nei lavori di riparazione dei sentieri. E
proprio lungo questo sentiero oggi incontriamo numerosi yak, sono bestie
enormi e poco affabili. Cerco di ricordarmi la parola maestra di Rajan, e cioè
che l'importante è incrociare uno yak fermandosi dalla parte dove non c'è il
dirupo. Scendiamo risaliamo verso un passo, in breve siamo a Tengboche.
Qui c'è il monastero più grande della valle del Kumbu, entrando un monaco ci
sorride mentre i miei occhi fissano curiosi la grande statua dorata del
Buddha. Usciamo nel piccolo cortile del monastero, immaginiamo come deve
aNeemarsi quel piccolo luogo in occasione della festa del Mani Rimdu. Siamo
stanchi ma la visita a Tengboche ci ha regalato una emozione viva che ci
accompagna fino a Pangboche, dove ci attende una camera e un buona
zuppa all'aglio. (...continua con la 2a parte)
Racconti
La pista in salita dell’aeroporto di Lukla
Welcome to Lukla airport
Un portatore con un carico pesante
Il nostro portatore Dawa e Chiara
Ponte sospeso con i cavalli del vento
Namche Bazar
Chiara K.O.
Matteo a Namche
Tara Air super confort
Le prime montagne imbiancate: Tamserku
Chiara O.K.
L’inconfondibile forma dell’ama Dablan
Il vecchio e il suo terribile passato
L’incredibile monastero di Tengboche
Sterco di yak ad essiccare al sole
usato come combustibile super ecologico
Vita nei villaggi
Appena sopra Namche si vede la cima
dell’Everest sulla sinistra
Il sentiero che porta a Namche è costellato
di piete mani, chorten e cavalli del vento