Fuga da Lukla - Viaggio al Campo Base dell’Everest  (parte2) di Matteo Bergamo La sconfitta  lunedì 14 marzo 2011 Pangboche (3.930) - Dugla (4.620)  Ci svegliamo presto, la stanza del lodge pur essendo accogliente è ancor più  fredda di quella di Namche, sui vetri interni delle finestre scopro che si è  formato del ghiaccio. Uscendo fuori ci sorprende inaspettata la vista della  cima dell'Everest. Mi lavo la faccia nel lavandino che è addossato ad un  muretto all'aperto, penso che non è male avere un bagno en plein air con  vista sull'Everest. Ora camminiamo a quattromila metri la quota si fa sentire,  il cuore pompa più velocemente, la fatica si fa viva presto. Il sentiero è molto  suggestivo, arrivati a Periche di colpo lo scenario si apre e ci appare in tutta  la sua bellezza un'ampia valle glaciale. Qui c'è l'ospedale e un futuristico  monumento ai caduti dell'Everest, di fianco a quest'ultimo una catasta  ordinata di sterco di yak rinsecchito. A Periche non c'è legna e il combustibile  costa parecchio, la merda secca scalda bene una volta caricata nella stufa. Ci  fermiamo in un lodge per uno spuntino prima dello strappo che ci porterà a  Dugla. Rajan scambia due chiacchiere con il proprietario del lodge, mentre  parla l'espressione del suo volto si fa sempre più cupa.   Quando torna da noi gli domando: "Tutto OK?".  Lui mi risponde diretto:   "No, è morto uno sherpa qui, stanotte. Mal di montagna." Non afferro bene il  concetto, pensavo che queste cose non accadessero nei trekking e che i  nepalesi fossero per diritto di nascita già acclimatati. "Dicono che ha  continuato a salire anche se non si sentiva bene."    Io e Chiara usciamo dal lodge confusi, attraversiamo Periche e proprio in  fondo al paese c'è una tenda con tre militari e dall'altro lato della strada il  corpo di un ragazzo abbandonato per terra e ricoperto da un lenzuolo. I  militari fermano Rajan chiedendoci se abbiamo fatto foto o riprese. Rajan  intimorito dice di no, che non abbiamo fatto nulla, ma io le ho fatte.   Questa faccenda mi rode dentro, perché quel ragazzo è crepato a Periche  dove c'è un ospedale che può curare l'edema. Mi inquieta perché pur di  portare un carico non ha ascoltato il proprio corpo che gli diceva di fermarsi,  ma è andato avanti perché la povertà ti fa diventare sordo anche verso te  stesso. Dicono che era giovane, inesperto e che provenendo dalla valle non  era acclimatato; dopo essere arrivato al campo base ha cominciato a stare  male e, dopo essere sceso, nella notte è morto a Periche, ad un tiro di sputo  dall'ospedale. Non so come sentirmi. Forse sono preoccupato per me stesso  o per Chiara. O forse no. Di fronte a queste cose mi sento invece sconfitto,  come uomo di montagna, come persona libera, siamo tutti perdenti. Sconfitti  dai nostri bisogni, dalle nostre ricchezze, ancor più sconfitti del popolo  Sherpa. Rajan si accorge dei miei pensieri e mentre saliamo verso Dugla mi  racconta una storia, che più o meno suona così.   Un giorno due divinità camminavano sui ghiacci delle cime più alte  dell'Himalaya e guardavano la vita degli uomini più in basso. Il loro sguardo  improvvisamente si soffermò su uno sherpa che, con un carico pesantissimo,  arrancava su per una salita aspra. La divinità femminile si rivolse allora a  quella maschile. "Perché quest'uomo non ha diritto ad avere una casa e una  vita come gli altri, ma è costretto a portare ogni cosa sulla schiena?" La  divinità maschile rispose "Ho già offerto a quest'uomo un'altra vita, ma lui ha  rifiutato." La divinità femminile, insoddisfatta della risposta, insistette ancora  affinché gli fosse concessa una seconda opportunità poiché le faceva molta  pena quell'uomo schiacciato da un peso così brutale. La divinità maschile  allora prese una pentola e dopo averla riempita d'oro la scagliò giù dalle  montagne in modo che finisse proprio sul sentiero davanti ai piedi dello  sherpa. Questi, allo stremo delle forze per il peso del carico, trovandosi una  pentola tra i piedi le sferrò un calcio come era solito fare con le cose che  intralciavano il suo cammino. La pentola cadde nel burrone e finì la sua corsa  contro il muro di una casa di un ricco albergatore. Così da allora ogni sherpa  porta sulla schiena la propria storia e il proprio doloroso destino. Sorrido e  penso a quanto sia straordinaria questa gente, in grado di portare sulla testa  e sulle spalle carichi pari o superiori al proprio peso, gente che se fosse  formata tecnicamente sarebbe in grado di fare cose incredibili in montagna,  come quel portatore che incontriamo nel lodge a Dugla che ogni volta che  sale sulla cima dell'Everest la raggiunge sempre due volte la prima per  posare le corde fisse per i turisti occidentali, la seconda per accompagnarli in  vetta. Born to Run Martedi 15 marzo Dugla (4.620) - Everest Base Camp (5.360) - Gorak Shep (5.140)  Oggi è il momento della verità, puntiamo dritti al campo base, ci sentiamo  bene, la giornata è buona anche se tira un po' di vento. Raggiungiamo presto  il Tokla pass dove sorge un vero e proprio giardino di pietra. Vi sono  numerosi memoriali sparsi un po' dappertutto lungo tutta questa collina  morenica. Ognuno di essi porta una targa commemorativa di chi non è più  tornato dall'Everest; fra tutte spicca quella di Scott Fisher, di cui tante volte  ho letto in Aria Sottile e in altri libri sulla vicenda del '96. Dopo il villaggio di  Lobuche, oltrepassiamo il bivio che indica la piramide del CNR e arriviamo a  Gorak Shep, l'ultimo insediamento prima del campo base. Mi piacciono i tetti  blu di questo aggregato di case a cinquemila metri. Mangiamo un boccone  poi ci avviamo al campo base. Il tempo peggiora salgono dei nuvoloni.  Tocchiamo finalmente il campo base, non ci sono spedizioni in questo  periodo, d'altronde siamo ancora in marzo, la cima dell'Everest non è visibile  da sotto, lo spettacolo qui è la seraccata Khumbu che scende fino al campo  base. Dicono sia uno dei tratti più pericolosi della salita e non faccio fatica a  crederlo visto come è tormentato il ghiacciaio in quel punto. Siamo a 5.360  m. vicino ad un grande masso con la scritta Everest Base Camp, ci  abbracciamo e ci stringiamo le muffole, felici di aver raggiunto il primo  obbiettivo del nostro viaggio. Da qui un pochino vien voglia di salire, penso  che siano fortunati quelli che possono permettersi una salita così. Ma fa  anche molto freddo e l'ambiente è severo, ciononostante Chiara sorride  mentre canzoniamo una donna brasiliana conosciuta a Gorak Shep che  sognava il mare e non vedeva l'ora di tornare alle latitudini tropicali. Al  contrario so già che sentirò una tremenda saudagi per questo posto una  volta tornato alla pianura padana.  Mercoledì  16 marzo Gorak Shep (5.140) - Kala Pattar (5.545) - Pangboche (3.930)  Ci svegliamo nel cuore della notte, Rajan bussa alla nostra porta, siamo già  svegli e agguerriti. Oggi è la giornata del Kala Pattar, la pietra nera. Si tratta  di una piccola cima o meglio di una collina nera a  cinquemilacinquecentoquarantacinque metri sul livello del mal di testa.   La salita richiede un paio d'ore scarse, e si tratta della miglior vista  sull'Everest nei paraggi. Usciamo che è buio pesto, con le frontali che  illuminano il terreno duro per il ghiaccio. Fa un freddo polacco, sopra di noi le  stelle appaiono così grasse e luminose che si possono annusare. Non  abbiamo toccato cibo prima di partire (grave errore) perché la cucina era  chiusa, abbiamo solo un termos pieno di acqua calda dalla sera prima.    Partiamo di buon passo verso la cima del Kala Pattar, davanti a noi vedo solo  la scia di due frontali. Il freddo comincia a farsi sentire nelle mani, nei piedi,  poi nel resto del corpo. Ci saranno quindici o venti gradi sotto zero, ma il  vento e la quota rendono il corpo ancora più sensibile a quel freddo.  Lentamente il cielo si fa meno buio, ormai vedo al cima, Chiara mi dice che  non ce la fa più, ha troppo freddo e vuole tornare indietro. Come? Mi  concentro e cerco dentro di me le migliori motivazioni che possano farla  desistere dal mollare tutto così vicini alla meta. "Riposati un attimo, mangia  qualcosa, copriti bene, dai che ormai ci siamo." Quante volte avrò detto  queste parole a me stesso o a qualcun altro, ma in quel momento le sentivo  stonare. Prendo il termos lo svito per dare a Chiara un po' di acqua calda,  prima ne bevo un sorso, ma subito la sputo per terra schifato. Mi hanno  riempito il termos con acqua proveniente da una tanica di kerosene. Vuoto  tutta l'acqua, "peso inutile" penso. Poi mi abbasso verso Chiara e le chiedo di  non mollare, vedo che fa sì con la testa e mi dice "andiamo piano però",  faccio sì con la testa. I due ragazzi davanti a noi scendono senza aspettare  l'alba, anche loro provati dal freddo.   Siamo in cima ed ecco all'improvviso che avviene il miracolo. Tra l'Everest e il  Nuptse si alza un fascio di luce che colora lentamente ogni cosa: la piramide  nera, i ghiacciai pensili, i merletti ricamati sulle creste, i fantasmi nascosti tra  le rocce e tutte quelle forme meravigliose che si alzano sopra le nostre teste  per tremila metri. La notte ormai fugge e insieme a lei, la stanchezza, il  timore, solo il freddo resta, ma per un attimo possiamo dimenticare anche  quello. Siamo soli sul Kala Pattar e questa solitudine non ha prezzo. Domani è  anche il 150° dell'unità d'Italia, dal mio zaino esce improvvisamente una  bandiera... È una tale sofferenza togliersi i guanti per fare le foto: il freddo da  polacco è diventato ora himalayano. Chiara dice che non resiste più e  comincia a scendere lentamente. Io mi fermo ancora un po', ringrazio Dio di  essere qui e quando sento che dentro si è riempito un po' quel vuoto che mi  porto appresso, do gas ai piedi e comincio a scendere.   ItaliaNepal   Giovedì 17 marzo Pangboche (3.930) - Padking (2.610)  Andiamo via spediti il viaggio di ritorno è lungo e l'obbiettivo di arrivare il più  possibile vicini a Lukla per prendere l'aeroplano domani mattina. Ormai siamo  perfettamente acclimatati, m'immagino il mio sangue più denso del solito  come un brodo di manzo pronto ad accogliere i cappelletti. Superiamo molti  escursionisti lungo il sentiero e arriviamo a Padking che ormai è sera.  Volendo avremmo potuto raggiungere Lukla, però decidiamo di fermarci qui  per festeggiare insieme. A Padking ci fermiamo in un lodge molto carino e  accogliente. Qui ci lasciamo andare al folklore tipicamente italiano. Sfidiamo i  nostri portatori a briscola, insistiamo per mangiare tutti insieme, e dividiamo  con loro il salame che abbiamo portato, ma sopratutto scoliamo un numero  imprecisato di birre Everest (per tutto il viaggio per via della quota non  abbiamo toccato alcool). Dopo un paio di foto con una parrucca con i colori  del'Italia la serata si trasforma quando una ragazza iraniana intona una  canzone tradizionale, cui replicano un paio di irlandesi ebrei appassionati di  musica medievale e infine per non essere da meno sfoderiamo il più  consumato repertorio di canzoni popolari italiane, orgogliosi del fatto che in  Iran Toto Cutugno ora non è un estraneo. Un inferno chiamato Lukla   Venerdì 18 marzo Padking (2.610) - Lukla (2.840)  Sabato 19 marzo Lukla (2.840) )- Kathmandu  È venerdì dobbiamo essere a Lukla per le dieci del mattino per montare a  cavallo della libellula che ci riporterà a Kathmandu. Pioviggina, e questo non  è un buon segno. Appena arriviamo ci annunciano la cancellazione di tutti i  voli, se ne riparla domani. Salutiamo Dawa che ci mette al collo le kata, le  tipiche sciarpe bianche tibetane considerate di buon auspicio. Lo fa in una  maniera formale che ci fa sorridere, poi ci abbraccia e si commuove anche lui  come noi. Gli lasciamo una discreta mancia perché si compri un paio di  scarpe nuove, quelle che ha addosso hanno degli allegri buchi in punta. Ma  so già che le farà cucire e userà quei soldi per la famiglia. Restiamo lì in balia  del fato, mentre intorno a noi danzano i quadri di Hillary ovunque: scopriamo  infatti che il nonno del gestore partecipò alla spedizione della prima scalata  dell'Everest.   Il giorno successivo si ripete la stessa commedia, che poi è una tragedia, tutti  pronti poi tutto annullato. Nessun aereo si alza o atterra a Lukla. Abbiamo  letto che è capitato ad alcuni di restare bloccati addirittura dieci giorni  persistendo il maltempo. Chiara comincia ad agitarsi, abbiamo l'aereo domani  per l'Italia e non possiamo perderlo se non vogliamo spendere altri soldi e poi  è un problema anche per il lavoro. Tutto avviene nel giro di qualche minuto,  uno sherpa borbotta che forse c'è la possibilità che arrivino gli elicotteri, un  gruppo di belgi si fa avanti, qualcuno telefona in aeroporto e conferma che  da Kathmandu stanno per arrivare alcuni elicotteri, l'unico problema è di  ordine economico. Sono trecento dollari a crapa. Dentro di me dico che va  bene anche attendere il bel tempo, avvertire in ufficio e parlare con la  compagnia aerea, ma quando mi volto per dirlo a Chiara lei ha già in mano la  carta di credito e un sorriso malvagio… Pago così i seicento dollari mentre  salta la luce e perdiamo mezz'ora per cercare con la frontale una di quelle  vecchie macchinette manuali per strisciare la carta. Guardo gli sherpa e mi  rendo conto della sproporzione del mio gesto, quello che per loro è lo  stipendio di due anni io l'ho speso così, per non dover attendere lì altri giorni.  Vorrei non averlo fatto, ma ormai ho in mano una velina che dice il contrario.  Non ho mai volato su un elicottero, ma è l'unico modo per muoversi quando  c'è brutto o in caso di nebbia, riesce ad atterrare facilmente e si muove  seguendo il corso del fiume. Fuggiamo così da Lukla come dei tarantolati,  raggiungiamo dopo quasi un'ora di cammino il fiume in fondo alla valle, dove  in mezzo ai campi ci sono tre elicotteri che depositano dei trekkers arrivati da  Kathmandu. Saliamo e finalmente ci lasciamo alle spalle Lukla immersa nella  nebbia più completa.   E mentre voliamo leggeri, mi vengono alla mente alcune immagini del nostro  viaggio. In particolare ripenso alla sera nei lodge seduti in cerchio, a parlare  scaldandoci intorno alla stufa carica di sterco di yak. Credo che ancor più che  nostalgia delle montagne, avrò nostalgia di quei momenti, di quel modo  antico e umano di condividere il viaggio, di ciò che si deposita dentro di noi  quando sentiamo insieme la natura, la strada, la fatica, l'amaro della sconfitta  e la gioia della vittoria. Allora noi non siamo più portati o portatori, ma solo  persone libere.  Racconti La finestra ghiacciata della nostra stanza all’interno Bagno en plein air A terra lo sherpa morto sotto un lenzuolo sorvegliato da due militari Lo Sherpa di Dugla che più volte ha salito l’Everest e che sistema le fisse   Memoriale di Scott Fischer Chiara col chador per il freddo Pumori e sotto la collina del Kala Pattar La valle glaciale di Periche 150° Unità Italia La magia dell’alba La piramide nera dell’Everest Uomini in baracca! Everest BC 5.360 m Seraccata del Khumbu Monumento agli scomparsi sull’everest Ruote di preghiera sulla via del rientro Terra, terra! Escaping Lukla Arrivederci montagne Beh... Matteo... stamattina sono solo a casa e in attesa di ripartire per Valditacca avevo una miriade di piccole cosette  logistiche da fare, ma mi hai portato prima in Nepal, e poi sulle Grigne... Grazie, ho conosciuto meglio una persona, anzi  due, avuto alcune conferme e fatto una bella lettura, perché scrivi anche bene, e io apprezzo molto questa cosa, anzi  codesta cosa!!! Soprattutto questo racconto è "fondente", e ho capito... Aggiungo quel che diceva sempre la mia prof di greco: METTETEVI IN CRISI DA KRINO! Krino vuol dire dividere, ma  anche passare da una parte all'altra, e crisi di per sé non è dunque una parola negativa, è passaggio, distinzione "critica"  (aridaje!)... e cosa c'è di più parente di tutto questo che un bel CRINALE!?! ...donde per facili roccette si perviene  agevolmente alla cima!!! Evvai... Stefano Pinori   Commenti