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PROFUMO DI FUNGHI
Guida semiseria del perfetto fungaiolo
di Monica Blondi
Se a qualcuno venisse in mente di chiedermi qual è il profumo che mi fa
pensare all'infanzia, non avrei alcun dubbio: quello dei funghi stesi ad
asciugare al sole. Nelle annate fortunate, quando i porcini erano così
abbondanti che al mattino te li ritrovavi davanti all'uscio che chiedevano solo
di essere affettati, esauriti tutti i taglieri e le assi di legno, mia madre tirava
giù dal fienile le vecchie reti da letto. Alla sera venivano meticolosamente
riportati dentro affinché non prendessero la guazza, che li avrebbe resi
umidi e mollicci, e il loro profumo penetrante si mescolava a quello più
delicato delle mele e delle noci stipate in alte casse di legno. Ad uno di
questi giorni è legato il mio ricordo più bello.
Io e mio padre eravamo partiti a metà di una tiepida mattina autunnale in
direzione del bosco di faggi vicino a casa, che confinava con la nostra
amata pineta, orgoglio di tutto il paese, vuoi per gli effluvi di resina che
impregnavano l'aria delle nostre passeggiate serali, vuoi perché ogni singolo
pino era stato piantato parecchi anni prima da ciascun abitante. Si era unita
a noi anche la signora Bisley, la nostra gatta, il cui naso rosa e umido veniva
continuamente sfiorato dalla roncola che mio padre usava per farsi largo tra
le felci, alte quanto me, e i rovi carichi di more. Dopo una salita da ginocchia
in bocca che mi aveva lasciato esausta, ecco la mirabile visione: in una
piccola radura, ancora scintillanti di rugiada, vari esemplari di boletus edulis,
di diverse fogge e dimensioni, se ne stavano lì impalati quasi ad aspettarci.
Le poche borse che avevamo preso con noi, più che altro per scaramanzia,
non erano sufficienti a mettere al sicuro il prezioso carico e così mio padre,
che soffriva sempre il freddo e non indossava mai meno di tre maglioni, si
era sfilato il dolcevita bordò e ne aveva ricavato un morbido sacco. Di fronte
a mia madre, spuntata fuori ad accoglierci, avevamo ostentato un'aria
delusa per farle credere di non averne trovato neppure uno, salvo poi
estrarli da dietro le nostre schiene e metterci a raccontarle all'infinito ogni
singolo fotogramma della nostra fruttuosa avventura. La prima regola del
perfetto fungaiolo è quella di saper bluffare come il più incallito dei giocatori
di poker.
Oltre che fungaiolo, mio padre era un cacciatore, ma della domenica, nel
senso più positivo dell'espressione. L'aneddotica familiare narra infatti che,
mentre gli altri uomini del paese partivano alle cinque del mattino in tenuta
anti-selvaggina su jeep coperte di fango insieme a cani nervosi e assetati di
sangue, lui usciva di casa verso le undici, ordinava a mia madre di mettere
su l'acqua per la polenta e si incamminava nel solito bosco con la carabina
in spalla. Verso mezzogiorno era di ritorno con una lepre tenuta per le
orecchie o un fagiano a testa in giù. Con tutta probabilità i poveretti,
spaventati dalle raffiche e dai latrati, alla vista di mio padre e della sua aria
mite venivano ad arrendersi spontaneamente tra le sue braccia. Mi si
perdoni la piccola digressione, affatto casuale; fungaioli e cacciatori hanno
almeno una cosa in comune: la tendenza ad esagerare nei racconti la
dimensione delle loro prede.
Il vero fungaiolo sente l'odore del fungo ancora prima di vederlo. La punta
del suo bastone scosta delicatamente le foglie secche e, a colpo sicuro,
libera l'oggetto del desiderio. Staccare un fungo dalla sua sede è un
momento sacro, un'emozione unica. Andrebbe inserito tra le cento cose per
cui vale la pena vivere. Quando si ha la fortuna di imbattersi in una di
queste mirabili creature del bosco è bene non lasciarsi andare a fragorose
manifestazioni di gioia ma limitarsi ad esultare dentro di sé. Quando mi
capitava di farlo, i miei mi zittivano con aria grave. Dal paese vicino
qualcuno avrebbe potuto sentirmi e capitare su in un battito di ciglia a
sfilarmi da sotto il naso l'ambita muffa.
La fungaiola più agguerrita che io abbia mai conosciuto è mia zia Rina,
l'unica in grado di tornare a casa con il bottino perfino nelle annate di magra
assoluta, quando anche il naso più esperto non rilevava la benché minima
spora. Mi sembra ancora di vederla durante una spedizione al monte
Navert, fendere grovigli di felci e ginepri intirizziti con falcate da gendarme.
Io e mio cugino, poco più che adolescenti, le trotterellavamo dietro come
giovani caprioli, i piedi infilati negli stivali di gomma e in mano il bastone
d'ordinanza. Ogni tanto sferravamo un calcio o una bastonata a qualche
fungo matto trovato sul nostro cammino. Dopo un'ora, con il sole già alto,
arrancavamo con le ginocchia tremanti, le vesciche ai piedi e la lingua a
penzoloni. Sono stata assalita dallo sconforto quando ho visto mio cugino
gettare via una micca di pane fatto in casa da un chilo, un chilo e due, solo
per alleggerirsi un po'.
Un'altra regola imprescindibile per essere dei perfetti cercatori di funghi, è
quella di non rivelare mai le proprie fungaie, neppure se a torturarvi fosse
Torquemada in persona, giunto dall'aldilà per l'occasione. D'altronde
dovrebbe essere vietato per legge porre certe domande. Se qualcuno però
dovesse arrivare a tanto, sono solo tre le cose da fare. La prima è quella di
cambiare discorso spostandolo sul primo argomento che vi balena alla
mente. Se il vostro interlocutore dovesse insistere è consigliabile chiudersi
in un silenzio ostinato corredato da un sorriso più enigmatico di quello
esposto al Louvre. Di fronte ai più tenaci, se non si hanno scrupoli di sorta,
si possono fornire false coordinate che porteranno il malcapitato fuori rotta
di almeno cinquanta chilometri, spingendolo verso una porzione di macchia
impenetrabile agli esseri umani, infestata da lupi, orsi e, pare, da qualche
fantasma.
Se c'è una cosa che distingue noi fungaioli di montagna da tutti gli altri è un
certo fondamentalismo. Se dobbiamo alzarci all'alba, avanzare tentoni
dentro roveti pronti a lacerarci le vesti e le carni, siamo disposti a farlo solo
per lui, il re dei funghi, il porcino. È con una certa aria di superiorità mista a
derisione che guardavamo i genovesi fare incetta di colombine dalle
sfumature poco rassicuranti o i parmigiani riempire i bauli di mazze da
tamburo. Nelle annate sfortunate potevamo scendere a compromessi e
accontentarci dei pineroli, parenti poveri dei venerati porcini, che trovavamo
senza troppa fatica nella pineta sotto casa ma che ti facevano sentire come
chi, in una gara, vince il premio di consolazione.
Infine, il fungaiolo modello deve possedere una serie di qualità fondamentali
quali lo sprezzo della fatica, la caparbietà, self-control e attenzione per il
dettaglio. Doti umane indispensabili anche nella vita di tutti i giorni. E
mentre cerco un modo per terminare questa guida semi-seria per perfetti
fungaioli, penso a me e al fatto che sono passati secoli dall'ultima volta che
sono partita a cercar funghi. Giunta a metà del cammino della mia vita, anzi
avendola superata da un po', ormai le vesciche ai piedi mi vengono più per
un paio di sandali nuovi che per una scarpinata in montagna. Ma chi è stato
fungaiolo, lo è per sempre. E allora mi viene da pensare che forse non
esistono manuali, regole o vademecum per diventare perfetti fungaioli. A
guidarci è solo un profumo. Quello della nostra infanzia.
Racconti
Monica Blondi
Laureata in Lingue, Monica è
originaria di Ceda, un piccolo
paesino situato ai confini
dell’Appennino parmense.
Esperta e grande appassionata
di letteratura caraibica ha
pubblicato diversi saggi e
racconti. Oggi collabora con
alcuni blog che mescolano
cucina e letteratura. E’ mamma
e del piccolo Luca e
tenacemente attaccata alle
tradizioni della sua montagna.
Commenti
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