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Nuovi piedi per camminare
Grigna 17-06-2012
Quando suona la sveglia mi alzo in fretta, lo
faccio perché il sonno non mi costringa a
restarmene al caldo, al sicuro. Ogni letto, anche
quello del peggior rifugio, quando ha preso la tua
forma e il tuo calore cancella ogni volontà
combattiva e riporta ogni cellula alla molle
memoria del sacco della nascita.
I miei piedi si allineano sul pavimento precisi,
metodici. La bocca invece è ancora piena della
stanchezza di ieri sera. Sorrido perché con i miei
tre amici abbiamo festeggiato.
Tra sei mesi, se tutto fila liscio, io e il Griso saremo padri di una creatura.
Non della stessa ovviamente. Lo abbiamo scoperto ieri pomeriggio alla
falesia di Vaccarese, fermi ad una sosta manovrando le corde. Il Griso stava
infiocchettando un barcaiolo, poi ad un certo punto è entrato in trance e ha
detto:
"Io e l'Elisa siamo "incinti": 6 settimane."
A quelle parole dentro di me si è formato come un gatto randagio che l'aria
dei polmoni ha spinto verso la gola.
"Anche noi!" ha detto uscendo il gatto che non si ricordava di aver promesso
a mia moglie Chiara il massimo riserbo sulla faccenda…
Scoppiammo tutti in una risata, anche Giò e Bobby, insieme noi, ad una
ottantina di metri da terra sembravano divertiti da quella coincidenza
romanzesca. Lessi per un attimo i nostri occhi, parlavano di felicità e
reciproco imbarazzo. Avevo voglia di scendere per mettere mano a molte
birre, ma essendo a due sole settimane dall'esame di roccia non era una
buona soluzione. Alla fine aspettammo la sera e insieme a lei giunsero le
birre e qualche sigaro.
Ora ho in bocca quel sapore dolceamaro che mi dice tutte quelle cose.
Chiamo il Giò almeno un paio di volte, poi vado nella stanza degli altri e li
apostrofo con un:
"Sveglia, che dobbiamo andare." Sui torrioni Magnaghi ci sarà il pienone
oggi.
Ci infiliamo nel bosco fresco, il sole è ancora poco sole, decidiamo di
arrampicarci per il canalone Porta è la via più breve e faticosa. Arriviamo
dopo un'ora e mezza all'attacco della via con la maglia da strizzare. Davanti
a noi s'innalza imponente il Magnaghi meridionale, a fianco il sigaro Dones,
più piccolo ma slanciato con una croce sproporzionata sulla cima.
Attacchiamo lo Spigolo Dorn, la roccia è buona, la via mai troppo difficile, ci
sono alcuni chiodi resinati. La giornata è calda e promettente, è bello
arrampicare con gli amici. Giunti alla sosta sulla cima appare una coppia
stravagante. Arrivano dall'età d'oro dell'alpinismo, usano i nostri moschettoni
per assicurarsi e si rimbeccano continuamente per il poco coraggio o la
poca dimestichezza con le manovre di corda. Scopriamo che sono stati
sgridati anche da altre cordate perché si erano legati come Comici nelle foto
d'epoca. Penso che se arrampicare
non cambia la nostra identità
radicalmente allora forse tutto
questo ha poco senso. Ci caliamo
con una doppia sull'altro torrione, il
Magnaghi Centrale, poi Giò ed io
continuiamo spediti fino alla forcella Glasv. Ormai manca da scalare l'ultimo
dei tre Magnaghi, il Settentrionale, poco più di tre tiri, cominciamo ad essere
stanchi. Insisto per provare la via Lecco, invece della normale, è un po' più
difficile ma so che è nelle nostre possibilità. Il Giò attacca il primo tiro, la
roccia è compatta, l'arrampicata piacevole. Lo guardo salire, il Giò ha una
fisicità sottile e nervosa, i capelli pettinati dall'uragano, talvolta lo vedo
stanco, dice che soffre la tensione dell'arrampicata ma possiede un'energia
inesauribile. Arriva presto in sosta e mi recupera. Prima di ripartire aspetto
dietro di noi il Bobby e il Griso, legati insieme in cordata. La sosta è misera
per quattro persone persone, ora tocca a me. Mi concentro, la via diventa
un poco più ripida e difficile, mi sento bene anche se le gambe in qualche
passaggio tremano un poco, per la stanchezza o forse semplicemente per
fifa. Penso solo a spingere i talloni verso il basso in modo che i miei ottanta
chili incollino questi piedi alla roccia. Alle volte penso che non vi sia
sufficiente considerazione per i piedi. E' difficile essere la parte più lontana
dal cervello, spesso quella più sporca, più maltrattata. L'arrampicata è una
meravigliosa architettura in movimento sostenuta principalmente dai piedi e
solo in minima parte dalle mani. Proseguo, mi lagno dei chiodi: sono pochi,
cadere significa fare un bel volo anche se legati. Metto un friend dove
riesco, salgo ancora, la placca mi impegna psicologicamente. E' molto
compatta intravedo solo una piccola fessura. Incastro un dado piccolo
tirandolo verso di me, rinvio, ma quando mi innalzo, quest'ultimo spostato
dalla corda cade. Allora torno giù rimetto il dado e mi dico di non perderci
troppo tempo perché sento pompare sangue alle braccia e non posso
permettermi l'errore di stancarle troppo. Salgo rapido, sono al sicuro. Mi
volto e vedo il dado beffardo scendere lungo la corda… Posiziono allora
un'altra protezione, questa mi fa sentire bene, come se fossi un uomo
nuovo. Alzo la testa, ecco la sosta, finalmente la vedo, la tocco col pensiero,
tra poco sarò fuori dal punto più difficile della via. Sono leggermente a
sinistra rispetto ad essa mi basta poco e ci sono. Sopra di me, le mie mani,
precise, metodiche, trovano una lunga fessura orizzontale, la afferrano,
sembra ottima. Ormai è fatta, una presa di quel genere fa tacere ogni voce
di precarietà dentro di me. Porto i piedi sotto di essa spingo e
contemporaneamente le braccia tirano quel tanto che serve a spostare il
mio corpo verso destra. Improvvisamente sento uno schiocco poi la roccia si
muove di colpo come se avessero slegato gli ormeggi alla montagna. In
quel momento perdo tutta la mia lucidità, ogni cosa è in volo, così repentina
che la mia testa fissa solo alcuni frammenti. Sento una frustata ai piedi
come se la roccia me li avesse spaccati, poi quel masso trascina via i miei
ottanta chili neanche fossi un fazzoletto di seta. Urlo non so cosa, anche il
gatto randagio dentro di me urla, e sento la forza, quella di gravità che mi
spinge e spinge ancora senza pietà verso il basso. Mi sento, mi vedo volare
abbracciato a un pezzo di montagna, quella montagna che amo da sempre.
Passa un tempo che non riesco a definire, aspetto che la corda si tenda,
aspetto… aspetto la botta. E arriva, ma dolce, elastica. La bocca è piena di
polvere, mentre il blocco con un boato terribile si sbriciola nel canale
sollevando una nuvola di polvere. E' nebbia sulla Grigna, è nebbia nel mio
cervello. Ma comprendo di essere fermo, vivo, attaccato alla corda stretta
dal mio amico Giò. Sono volato da una sosta all'altra, forse quindici metri.
Siamo tutti scossi, soprattutto il Giò, che per trattenermi si è mezzo bruciato
una mano. Mi guardo cerco di capire se tutto va bene, mi fanno solo male i
piedi, tremendamente male. In un attimo di impeto vorrei salire a recuperare
l'attrezzatura che ho lasciato sopra, ma i miei amici vogliono scendere
subito in doppia, e forse… forse è la cosa migliore.
Sono finalmente sul sentiero, un lungo sentiero, zoppico malamente
appoggiandomi ovunque mentre la mia mente comincia a tessere pensieri. Il
dolore ai piedi aumenta, a fatica trattengo i lamenti ad ogni passo, questo
non è buon segno, probabilmente uno dei due è rotto, se è così salterò
l'esame che aspettavo da tempo e questo mi rattrista incredibilmente. Poi da
dietro mi raggiungono i miei amici e allora si fa largo un'altra voce dentro di
me che dice che lassù ogni cosa poteva andare diversamente, per me, per
loro, nel bene e nel male. Sputo a terra uno strano sapore dolceamaro, lo
stesso che avevo in bocca stamattina prima di partire. Lungo il sentiero si
aggiungono altri arrampicatori che scendono a valle e ognuno racconta di un
incidente o di roccia che si sgretola. Cerco di accelerare l'andatura per
lasciarmi dietro quella sequela di sventure, ma non riesco, vado troppo piano.
Non riesco neanche a fermare un'improvvisa sensazione di felicità che mi
arriva addosso. Oltre la paura e il dolore sento i miei piedi… Quegli stessi
piedi che mi stanno portando a casa, come sempre, come ogni giorno, non
mi spingono più verso la cima che desidero, ma verso qualcos'altro. Verso le
persone che amo e tutto ciò da cui provengo e forse verso un nuovo me
stesso. E mentre mi lamento per il male, ho nuovi piedi per camminare.
Matteo Bergamo
Commenti
-Meraviglioso. E' sempre un
piacere leggerti, nonostante la
circostanza sfortunata, che però è
circondata di notizie meravigliose e
soprattutto di uno splendido amore
per la Vita. Grazie, Teo!
Valentina Balocchi
-Teo, ho letto i tuoi racconti, sei
molto maturato come scrittore. hai
una scrittura più sicura e fluida,
complimenti! Poi ho letto la grande
notizia ma siccome, giustamente,
vige uno stretto riserbo, vi farò
delle congratulazioni piccole
piccole per il momento. Ho aperto
un secondo blog di recensioni, si
chiama dieci righe, per il momento
è ancora spoglio. ti volevo
mandare la recensione dell'ultimo
libro di Corona
http://blog.giallozafferano.it/diecirig
he/come-sasso-nella-corrente-
mauro-corona/
poi ti mando la ricetta di una torta
in cui parlo di san rocco
http://blog.giallozafferano.it/profum
odidolci/crostata-agli-amaretti-e-
mandorle/
Monica Blondi
E' semplicemente stupendo....
Silvia Bersani
-Che grande sorpresa e che
grande piacere leggerti. anche se
mi arrivano lacrime agli occhi.. Vai
Teo!
Giuditta De Prato
Racconti